STUDIO LEGALE Avv.
STEFANO COMELLINI BOLOGNA |
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Troppo tempo su Facebook in ufficio? Giusto il licenziamento! |
Con la
recente sentenza n. 782 del 13.06.2016 il Tribunale di Brescia si è
pronunciato su un interessante caso di licenziamento (di una dipendente con
contratto a tempo indeterminato, con mansioni di segretaria amministrativa),
effettuato dal datore di lavoro, a causa di “un utilizzo del computer aziendale a
fini privati”. In
particolare, l’addebito sollevato nei confronti della dipendente era relativo
a circa 6.000 accessi, effettuati egli ultimi 18 mesi lavorativi, a Social
Network, giochi, musica ed altre attività estranee allo svolgimento
dell’attività lavorativa. La
dipendente ricorreva avverso il licenziamento deducendo che era meramente
ritorsivo (a seguito della domanda avanzata dalla stessa di ammissione
ai benefici di cui alla legge 104/92 per assistere la madre malata) e
comunque illegittimo per mancanza di giusta causa. Il
Tribunale di Brescia, tuttavia, con ordinanza, non accoglieva il ricorso
della dipendente rammentando che gli accessi avevano trovato riscontro nella
documentazione prodotta in giudizio dal datore di lavoro “relativa all’elenco di tali operazioni
nell’arco temporale predetto”
e nelle deposizioni dei testimoni (che confermavano che detti numerosi
accessi a Facebook erano stati scoperti dalla "cronologia" del
computer in uso alla segretaria) e che detta condotta integra
“una violazione degli obblighi di
diligenza e buona fede nell’espletamento della prestazione lavorativa …”. La
dipendente proponeva, di conseguenza, opposizione (ai sensi dell’art. 1 co.
51, legge n. 92/2012) avverso l’ordinanza deducendo, tra l’altro, la
“invalidità” delle prove offerte dal datore di lavoro in merito ai contestati
accessi ad internet; prove, tra l’altro, acquisite, a suo dire, in violazione
della privacy. Anche
l’opposizione, però, non aveva migliore fortuna. Il Tribunale, infatti, con
la citata recente sentenza, rilevata la tardività della contestazione (non
essendo stata sollevata in precedenza), ha precisato “che il datore di lavoro si è limitato a
stampare la cronologia ed il tipo di accesso ad internet dal computer
della dipendente,
il che
non richiede l’installazione di alcun dispositivo di controllo, né implica la
violazione della privacy, trattandosi di dati che vengono registrati da
qualsiasi computer e che sono stati stampati al solo fine di verificare
l’utilizzo di uno strumento messo a disposizione dal datore di lavoro per
l’esecuzione della prestazione. Né può ipotizzarsi una violazione dell’art. 4 della
legge n. 300 del 1970 [c.d.
Statuto dei Lavoratori],
trattandosi di attività
di controllo non della produttività ed efficienza nello svolgimento
dell’attività lavorativa, ma attinenti a condotte estranee alla prestazione”. Anzi, “la condotta appare senza dubbio grave,
se si tiene conto che si tratta di circa 6.000 accessi in 18 mesi, di cui
4.500 circa a facebook, effettuati durante l’orario
di lavoro, pari a circa 16 accessi al giorni … e che gli accessi
duravano anche decine di minuti …”. “Si tratta di comportamento idoneo a incrinare la
fiducia del datore di lavoro, avendo … costantemente e per lungo tempo sottratto ore alla prestazione
lavorativa ed utilizzato impropriamente lo strumento di lavoro, approfittando del fatto che il datore
di lavoro non la sottoponesse a rigidi controlli”. Per questi
motivi, il Tribunale
“rigetta il ricorso” e
“condanna … alla
rifusione delle spese di lite sostenute dal convenuto, liquidate in euro
1.800,00 per compensi oltre accessori di legge”. (Tribunale
di Brescia, Sezione Lavoro, sentenza 13 giugno 2016, n. 782) (6 luglio 2016) |
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